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Storia di un orto di terra rossa…

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Camminare sotto il sole guardando le nuvole muoversi col vento e le piante danzare al suono dell’aria, è un’emozione indescrivibile. Il cielo non è mai completamente limpido, c’è sempre qualche macchia bianca che si sparge all’orizzonte.
Guardi sotto i tuoi piedi, la terra è rossa, rossa di quel fuoco che brucia quando pensi all’Africa.
Intorno a te qualche capanna, qualche bambino che corre fuori per salutarti agitando la mano. In quel momento sei l’unica  nota stonata in quel paesaggio, se
i bianco, con lo zaino, con la bottiglietta d’acqua e le scarpe da trekking. Hai caldo, non puoi fare a meno di restare incantato pensando a come si vive qui, o lì, dipende in che parte di mondo ti senti.
Quando inizi a capire cosa stai per fare, il cuore ti si allarga, non so quanti di voi abbiano mai provato a tirare fuori dalla terra delle arachidi o a raccogliere fagioli, ma quando senti il calore delle piante che bruciano sotto i tuoi occhi, pensi che in fondo nella tua vita non avresti voluto altro che fare questo. O forse l’ho pensato solo io. Mi hanno spiegato in un francese comprensibile quale era il mio compito: una fila intera di montagnette piene di pianticelle che attendevano di essere raccolte; in realtà non mi hanno spiegato come fare, ho iniziato dopo di tutti. Vivo a Milano, l’unica  piante che ho mai curato sono quelle del mio piccolo balcone e, come dire, non hanno bisogno di una grande attenzione..perciò silenziosamente ho osservato come facevano gli altri, temevo di sbagliare, ma poi mi sono detta,  al massimo lascerai giù qualche arachide…e la prossima volta farai meglio.
Quando ho iniziato  il raccolto, concentrata sulla mia fila, cercavo di non distrarmi, il sole scottava forte, ma c’era un vento piacevole che ti faceva dimenticare di essere in mezzo al nulla.
Il campo è lontano da tutto, non ci sono case che l’occhio possa vedere, non ci sono costruzioni, non ci sono fili elettrici che disturbano la vista. Solo campi. Anche di granoturno. Qualche montagna di termiti fa crescere alberi dai quali ottenere un po’ di ombra. Mi sentivo in colpa a bere. C’erano donne sveglie dal mattino che battevano con dei bastoni gli arbusti dei fagioli per cercare di separarli dalle erbe bruciate, erano vestite di cotone, con stoffe coloratissime che sprigionavano un energia contrastante con il verde delle piante e l’azzurro del cielo, il capo coperto, non parlavano fra loro, sembrava fossero nate per fare questo. Non un movimento sbagliato, non un gesto fuori luogo. Mi chiedevo cosa stessero pensando, sarei stata curiosa di parlare con loro, se solo avessi parlato un po’ di swahili sarei riuscita a instaurare un po’ di conversazione. Invece mi sono limitata a guardarle. Nel frattempo avevo finito la mia parte, ho girovagato un po’ nel resto del campo per controllare se qualche occhio distratto avesse dimenticato di raccogliere qualche fagiolo. Ma era tutto in ordine.
Le donne del villaggio erano al lavoro aiutandosi tra loro per cercare di impiegare meno tempo possibile. Noi eravamo stanchi, ma di una stanchezza che ti allarga il cuore. Quando ci hanno chiamato per avvisarci che la jeep ci avrebbe riportato indietro, mi sono voltata, ho scattato una fotografia nella mia mente di quell’incantevole sensazione. Ho trattenuto il respiro, ho lasciato che il vento accarezzasse le mie braccia e ho iniziato a camminare verso una nuova emozione.

 
Beatrice Vinciguerra

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