Sofia Salardi è una volontaria di AMKA, impegnata dal 2021 nei progetti di supporto alle…

Oggi ho visto una donna piangere
Dai piccoli occhi rossi uscivano lacrime tonde e grandi come chicchi di grandine sulla pelle scura, mentre le mani paffute tentavano senza riuscirci di ributtarle indietro nelle pupille. Negli undici mesi di vita congolese non mi era mai successo di vedere una donna piangere, nemmeno nelle situazioni più disperate. Esiste una regola non detta che le vuole forti fino all’inverosimile. Questa mattina anche quel dogma antico si è sgretolato.
Piangeva tenendo in mano il corpicino ossuto del figlio di due anni, stremato da una malnutrizione lunga mesi e ridotto al peso che io avevo alla nascita. Piangeva pensando agli altri quattro bambini a casa, il più grande di dieci anni, e alla solitudine in cui li aveva lasciati per tentare un ultimo disperato rimedio di salvezza nel nostro centro di salute. Piangeva ascoltando la nutrizionista dirle piano che bisognava trasportare il bambino in fin di vita in un ospedale più grande, perché lì non avevamo mezzi per assisterlo. Piangeva capendo che nel grande ospedale non l’avrebbero seguito gratuitamente come avremmo fatto noi a Kanyaka e che non avrebbe potuto permettersi le cure per salvarlo. Piangeva sentendo il peso del mondo farsi macigno sulla pelle; piangeva vedendo davanti a sé il segno di una realtà senza uscita che la condannava a snaturarsi, a piegarsi, a farsi da parte di fronte all’evidenza. Piangeva e nelle sue lacrime racchiudeva il pianto non detto di centinaia di donne costrette quotidianamente a vivere la stessa identica situazione. Un storia lunga decenni di muta disperazione in cui è scritto il significato quotidiano della povertà.
In questo spicchio di mondo, miseria e disuguaglianza giocano a dadi con la vita di milioni di persone. Una realtà surreale figlia di secoli di oppressione condanna ogni giorno centinaia e centinaia di mamme a vivere l’atrocità di un figlio morente come fosse normalità, tirando i lembi del quotidiano fino a farci entrare dentro la rassegnazione alla tragedia.
Ai miei occhi, le pupille rosse gonfie di lacrime della mamma sfranta di tristezza hanno aperto lo sguardo sul significato umano della normalità.
Siamo abituati a leggere di morte senza sentirne l’odore, ad ascoltare di disperazione senza avvertirne il rombo, a vedere il dramma indicibile senza coglierne il senso. Siamo assuefatti.
Oggi la mia assuefazione è stata masticata dalla crudezza della verità, così reale da non poter essere messa da parte, così dura da non poter essere allontanata.
Le sue lacrime hanno chiamato le mie. Dalla sua disperazione è nata la mia. Nei suoi occhi ho trovato i miei, molli e fragili.
Ora non so se il piccolo ce la farà e se i nostri sforzi per aiutarlo saranno sufficienti. L’unica certezza è che quanto successo questa mattina ha spalancato le porte a un sentimento di empatia completamente nuovo. E che questo sentimento domani sarà la spinta in più per vivere di prossimità dove se ne avverte la terribile urgenza.
Questa mattina ho visto una mamma piangere.
Fintanto che le sue lacrime saranno il simbolo della distanza divenuta quotidianità, assuefazione, esigenza, mi sentirò apolide, perennemente a disagio a vivere la normalità di un altro luogo in cui tutto questo non è percepito.
Viviamo un mondo profondamente ingiusto. Sentirne il peso sulla pelle è il primo passo per farne un posto diverso.
Guglielmo Rapino
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