In questi giorni porto dentro, da giovane donna quale sono, una rabbia bruciante, che non…

L’altro, per l’altro, siamo noi
In questo momento sarei dovuto essere già in Congo.
Ho trascorso gli ultimi giorni a preparare le pupille allo spettacolo avvolgente della terra rossa stesa fino all’orizzonte e dei tramonti arancio pallido in bilico sul suo filo come panni ad asciugare. Mi sarei trovato di nuovo tra i villaggiucoli di fango accompagnato dal tam-tam sgangherato dei bambini seminudi in festa. Invece poco fa è arrivata la notizia, senza preavviso, “la RDC a seguito della diffusione del COVID-19 ha previsto misure di contenimento degli arrivi dall’Italia” e tutto si è infranto, bloccato. Oggi non si parte, tocca aspettare che le misure vengano revocate.
È curioso. Alla tristezza, all’amarezza, presto ha fatto posto il pensiero dell’altro.
È la seconda volta in pochi mesi che mi capita di vivere questa sensazione, la semplice consapevolezza di non poter far nulla ed essere tra le mani cieche degli eventi. L’ultima volta ero in Bolivia e tentavo di raggiungere il Perù su una macchina traballante nel mezzo della guerra civile. Ogni posto di blocco, ogni pausa, ogni fermata, era una preghiera a santi senza paradiso a cui affidare la speranza di arrivare al confine sani e salvi. Non potevo, non potevamo farci nulla. C’era guerra, dovevamo raggiungere il confine e l’unico mezzo disponibile era una macchina. Ogni chilometro in più rappresentava una conquista, ogni pausa un brivido gelido sulla schiena in fiamme. In fondo al cuore, dietro coperte spesse di paura, resisteva però quella pace che salta fuori solo quando si ha la consapevolezza chiara di non poter fare nulla, che in fondo quello che accade è più grande della volontà e a poco serve agitarsi.
Ecco adesso è più o meno la stessa situazione. C’è una crisi enorme in atto e ci sono paesi che chiudono i propri confini. Qualcosa di così grande che non lascia spazio allo sgomento ma offre un tempo per vivere la pace calma della piccolezza, dell’impossibilità.
Penso di nuovo all’altro, quell’altro che vive costantemente questa sensazione di precarietà senza poterci fare molto più di niente. Milioni e milioni di persone scappano da malattie e da guerre e trovano blocchi o confini chiusi. Oggi tocca a me, oggi tocca a noi. Ecco l’opportunità perfetta per esercitarsi nel gioco, stranamente vintage, dell’empatia. Tenendo però a mente che un giorno presto (molto presto) io tornerò a viaggiare con facilità mentre la stragrande maggioranza di chi ha un passaporto diverso da quello italiano non lo farà.
In fondo è tutto qui: imparare a indossare i panni dell’altro. O, ancora meglio, togliersi i propri e restare nudo come l’altro.
O al massimo in pannolino.
Kisimba, ora lo so un po’ di più: l’altro, per te, sono io. Ma se saprò sentirmi nudo e sorridente, come sei, avrò colmato la distanza che ci separa. E questa attesa avrà tutto un altro senso. A tra poco
Ghiom
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