In questi giorni porto dentro, da giovane donna quale sono, una rabbia bruciante, che non…

La mia Africa: quando la terra rossa mi è entrata nelle vene
“Ma non ti sei abbronzata?” “Quanto faceva caldo?” “Ah, sei stata in Africa? E che animali hai visto?” “Ma c’è davvero tutta quella povertà che si vede in televisione?” “Che malattie ti sei presa?” “Ma il Mal d’Africa esiste davvero?”
Mi avevano avvertita. Una sera, nel giardinetto di casa a Lubumbashi, tra una sigaretta e un bicchiere di birra, ero stata avvertita: “Preparati! Quando tornerai a Roma ti riempiranno di domande. Le troverai strane, a tratti ti infastidiranno. Sarà difficile rispondere, sarà estremamente complicato poter raccontare, far capire quello che hai vissuto. Prenderai tempo, risponderai a mezza bocca e, nel tuo silenzio, cercherai di metabolizzare tutte le emozioni, tutti i ricordi che imparerai a custodire con gelosia.”
Sono tornata da circa 2 settimane e le frasi di quella sera rimbombano dentro di me. Assimilare un’esperienza del genere non è facile, i giorni passano, tu riprendi in mano la tua vita, il tuo lavoro, le tue abitudini ma niente è come prima. Ora il tuo cuore batte in modo asincrono. Una parte ha un ritmo tutto suo, diverso: quello è il pezzo di cuore che hai lasciato in Congo.
Tra me e il Congo c’è stato un vero e proprio colpo di fulmine; già prima di partire avevo il sentore che sarebbe stato il “viaggio del non ritorno”, il viaggio che avrebbe segnato la mia vita: “prima del Congo” e “dopo il Congo”. Il mio istinto non si sbagliava.
Siamo atterrate a Lubumbashi il 18 agosto e il calore che ho sentito negli abbracci delle persone che ci hanno accolto all’aeroporto mi hanno fatto sentire subito a casa; la mia nuova casa.
Da quel momento ho cercato di assorbire ogni momento, ho aperto i polmoni e ho iniziato a respirare come non avevo mai fatto prima. Ho provato ad assaporare, comprendere, osservare tutto ciò che si è messo sul mio percorso. Ho ascoltato, riso e pianto. Ho permesso alla terra rossa di entrare nelle mie vene e di mischiarsi alla mia anima. Ho abbandonato ogni paura e ho iniziato a vivere.
Oggi chiudo gli occhi e ripenso.
Ripenso a quella casa senza nessun comfort eppure così bella, ai secchi dell’acqua da riempire la mattina e la sera, ai denti lavati con una tazza in giardino. La sveglia alle 7 di mattina. Flavie, così bella e sorridente, che è sempre la prima ad arrivare e a fare colazione con noi. L’arrivo di Faty e poi, la casa che piano piano si riempie delle persone con cui andremo nei villaggi e con cui passeremo la giornata.
Ripenso alla creazione del puzzle perfetto per entrare in macchina. La cassa accesa, Franco 126 che intona “Noccioline”, e si parte per quell’ora di viaggio verso Kany aka.
La jeep che si muove dalla città verso i villaggi, il paesaggio che cambia. Il mercato che attraversi in macchina che la mattina è semivuoto e la sera, al ritorno, è il caos totale con persone, cibi, animali, macchine e moto; tutta quella confusione che crea però un’armonia tutta sua. La Gecamines, la montagna nera di scorie, che ti guarda con inquietudine mentre di muovi. La jeep corre sull’N1, la strada è asfaltata, non ci sono buche, s’incontrano tanti camion che vanno e tornano dalla Zambia. Sul ciglio della strada biciclette cariche zeppe di carbone spinte da persone affaticate che nonostante tutto hanno la forza di alzare un braccio e salutare. Iniziano a susseguirsi i villaggi e, a un certo punto, un cartello bianco con una scritta rossa (adesso ridipinto perfettamente da Sara e da me): “Zone de santè de Kipushi – projet developpement durable – Amka Katanga”. Sei arrivato. Sai che da lì a 30 secondi scenderai dalla macchina e un gruppo di bambini festeggeranno il tuo arrivo. Sai che scenderai dalla macchina e sarà un continuo di “Jambo”. Qui la gente ti saluta. Non ti conosce ma ti sorride e ti saluta.
La vita al centro di salute è vivida: si visitano donne incinte, si fanno piccoli interventi di chirurgia, si vaccina, si seguono i bambini malnutriti. Al centro di salute ho imparato a non dare nulla per scontato: un paio di guanti, 2 mL di lidocaina, qualche garza, un letto sterile; tutto viene centellinato, perché “oggi c’è, ma domani chissà”. Al centro di salute capisci davvero l’importanza e a volte l’unicità di quello che hai e che stai usando. L’atmosfera è sempre allegra, io il francese non lo parlo bene, loro non capiscono l’italiano eppure ci capiamo. Il linguaggio medico è universale e allora imparo e intanto mi metto a disposizione. Si susseguono i bambini da circoncidere, entrano senza le loro mamme, sono coraggiosi questi ometti. Gli spieghiamo che il piccolo intervento che faremo è per il loro bene, eviteranno infezioni e problemi futuri. Si spogliano, si sdraiano e si inizia. Alcuni sono bravissimi, sembra che in Congo i capricci non esistano; altri piangono, sono spaventati e allora infinite carezze e abbracci per cercare di tranquillizzarli.
Nel frattempo c’è il pre-scuola, decine di bambini si affrettano a prendere i banchi migliori. Qui andare a scuola non è né un diritto né un dovere, è un privilegio. Imparano le lettere, le forme, i colori. Nei loro occhi si percepisce tutta la voglia di apprendere. Sono orgogliosi e motivati. Un pennarello, un gessetto, un foglio da colorare sono oggetti preziosi che molti di loro vedono quel giorno per la prima volta. Avverti tutta la loro meraviglia, cogli il loro desiderio di avere quel pennarello anche a casa. Tu rimani senza parole, ti senti impotente e ti chiedi come sia possibile. Vorresti dare qualsiasi cosa a questi bambini; sai bene che questo non è possibile ma sai che Amka con le sue scuole ha permesso qualcosa di incredibile. Sai che Amka sta segnando il cambiamento e che il futuro di Geremia, di Enouk, di Hilaire, di Marghi e di tutti gli altri non è più così scontato. Loro avranno un’educazione. Impareranno a leggere e a scrivere. Conosceranno la storia e faranno in modo che il futuro sia diverso dal passato.
Poi ci sono i pomeriggi. Pomeriggi in cui con la jeep percorri strade con buche inimmaginabili per raggiungere i villaggi più lontani. Pomeriggi in cui si fanno le dimostrazioni culinarie o in cui si fanno i questionari di valutazione per la malnutrizione. Ci sono i pomeriggi della campagna vaccinale. Amka arriva dove nessun’altro arriva; Amka permette anche ai bambini che vivono nei villaggi più isolati di essere vaccinati. Amka assicura la vita. Tetano, difterite, morbillo, polio, varicella…le mamme preparano i bambini, alcune addirittura ti fermano e ti pregano di vaccinare il loro piccolo sulla strada, mentre sei in macchina. Sanno quanto è importante il vaccino per i loro bambini, sanno che quell’iniezione cambierà il destino di molti di loro. E allora si vaccina e nel frattempo si diventa coscienti dell’importanza di essere lì in quel momento.
La giornata volge al temine, si risale sulla jeep, si ripercorre la strada al contrario e si torna verso casa. Fa buio presto in Congo, la sera è freddo e non ci sono animali da Safari. Però c’è la Simba, la birra congolese per eccellenza. Un tavolo e un bicchiere di Simba condiviso con le mie compagne di viaggio, gli occhi stanchi ma pieni. La giornata che sta per finire è stata unica, speciale. E dentro sale la curiosità di sapere cosa ti riserva il giorno seguente.
Il Congo mi ha cambiato la vita. Ha alimentato le mie speranze di vivere in un mondo migliore. Un mondo in cui le differenze e le discriminazioni tra i popoli siano sempre meno e dove le cure e la possibilità di frequentare una scuola sempre più accessibile. Il Congo mi ha aperto gli occhi e mi ha permesso di vedere tutto da un’altra angolazione. Mi sono persa e poi ritrovata negli sguardi dei bambini e delle persone che ho incontrato. Ho sperato che il tempo scorresse più lento possibile, ho immaginato di rimanere, di non tornare. Ho pianto quando ho dovuto salutare la mia nuova casa, ho pianto quando ho abbracciato per l’ultima volta le mie sorelle poi, mi sono asciugata le lacrime e ho detto: “Arrivederci!”. “Arrivederci all’anno prossimo meravigliosa terra rossa”.
Roberta, volontaria AMKA
Questo articolo ha 0 commenti