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La bicicletta: fatica e gioia

Con un altro breve racconto Pierfrancesco ci fa capire ancora un pò la realtà congolese! Un facile paragone, quanto un mezzo come la bicicletta può cambiare nei due emisferi di mondo…

Alla filiale del centro della Raw Bank, (la banca più presente a Lubumbashi) sulla TV sempre accesa, osservo sorpreso un ciclista che con scatto possente lascia gli avversari sul posto e sfreccia a tagliare il traguardo. E’ Philippe Gilbert, il belga quest’anno imbattibile nelle corse di una giornata. Così riemerge da un cassetto della memoria che ieri si è corso il campionato del mondo di ciclismo.

La bicicletta di Gilbert (una BMC credo) condivide solo il nome con i mezzi a pedali e due ruote che popolano numerosissimi le strade del Congo. Allo stesso modo non credo che qui esista davvero la parola “ciclista”.

La bicicletta locale è un utensile meccanico poliedrico, utilizzato in mille modi e fino alla totale consunzione….un po’ come il nostro maiale!

Il telaio è ovviamente d’acciaio (se si rompe lo saldi), la canna è curiosamente doppia ad attestare la natura di bestia da soma della bicicletta congolese. Cambi e deragliatori non ne ho visti mai: troppo delicati? troppo costosi? Troppo inutili! visto che, con decine di chili di carico, è difficile superare qualunque pendenza. I freni, di foggia curiosa, talora dotati di strane “mollone”, premono i tacchetti non sul bordo ma nella parte inferiore del cerchio. Le selle sono capolavori di toppe e i pedali sovente ridotti a due “zeppi”. Un elemento vitale della bicicletta di qui è il portapacchi, in genere artigianale in tondino di ferro (almeno del 9!) saldato al carro posteriore e completato da due bastoni di legno che si levano a mò di “schienale” per permettere di sviluppare in altezza il carico merci.

Quasi ogni famiglia, mi dicono, possiede una bicicletta destinata agli usi più vari: quello che colpisce di più è trasporto del carbone vegetale, preparato da qualche parte nella Brousse, che viene affastellato in gerle che raggiungono volumi (e pesi) davvero stupefacenti (ma di questo ho già scritto).

Quando si rompe e non è più riparabile, senza pedali freni e catena, si utilizza finchè tengono le ruote a mò di carrello per il trasporto di cose. Se non è più capace di trasformare il lavoro meccanico in attrito volvente, la bici viene smembrata ed i componenti sfruttati nei modi più vari: una forcella a far da schienale ad un rudimentale panchetto (Duchamp a Parigi non inventò proprio nulla), un telaio col movimento centrale a girare utensili, e poi alla “fine del ciclo” (doppio senso meraviglioso) strumenti di gioco per i bambini. I copertoni ad esempio sono altalene, i cerchioni ovviamente oggetti da rotolare, le camere d’aria strisce per attività manuali.

La bici quaggiù è fatica, lavoro, sopravvivenza. Solo in mano ai bambini può diventare felicità gioco, svago anche spensieratezza. Imparano presto pedalando “in mezzo” alla canna e poi più grandini sorridono soddisfatti girando per il villaggio con qualche fratello in canna o sul portapacchi.

Libertà, gioco, spensieratezza rendono sempre più popolare da noi questa macchina meravigliosa che ci fa riappropriare della necessità di faticare per muoversi, iscritta sin dall’inizio nel DNA umano. Questa necessità di fatica è qui invece condanna che accorcia le vite: la bici a suo modo le allunga.

Un giorno vedremo ciclisti africani contendere a un belga il campionato del mondo? Non so, ma di certo è un giorno lontano sebbene in Ruanda (non molto lontano da qui) si svolga da un po’ una corsa a tappe.

Per ora lodiamo la bici che, per quanto diversa tra gli emisferi, resta il congegno più intelligente (ed elegante) per moltiplicare lo sforzo dell’uomo e promuove comunque la vita (e per alcuni la gioia) dovunque si trovi.

Pierfrancesco

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