In questi giorni porto dentro, da giovane donna quale sono, una rabbia bruciante, che non…

Intervista a Simone Cerio, il foto reporter che ha documentato il laovoro di AMKA nella Repubblica Democratica del Congo
Abbiamo intervistato Simone Cerio, fotografo e documentarista che per quindici giorni ha fotografato e documentato il lavoro di AMKA in Congo.
Classe 1983, alle spalle tanti anni di lavoro come fotografo e documentarista. La sua non è solo una professione, ma una grande passione. Simone Cerio ci ha raccontato in questa intervista cosa ha significato per lui l’esperienza con AMKA.
Simone, con il tuo lavoro di reporter, hai già visto molti angoli di mondo. Cosa ti ha spinto fino in Congo?
Uno dei miei libri preferiti è Cuore di Tenebra di Conrad. Il tema della scoperta, del colonialismo e del Congo sono sempre stati nella mia mente e hanno caratterizzato anche il percorso professionale che ho fatto. La foresta, il fiume, la luce e il rosso della terra sono parte del mio immaginario: non ero mai stato in Africa, partire da questo paese è stato per me un sogno.
Cosa ti accomuna ad AMKA, l’organizzazione che hai seguito in Congo e di cui stai documentando l’operato?
Lavoro con le ONG da tanti anni, possiamo dire che conosco bene il loro operato ed avendo acquisito diverse skills professionali riesco ad offrire un prodotto molto performante per queste realtà, ottenendo il massimo in termini di collaborazione. Amka è una realtà che conosce molto bene il territorio ed è composta da un team di lavoro ristretto ma con grande margine di crescita. Per me è stato naturale essere coinvolto dai loro progetti, ero certo di poter essere un valore aggiunto in termini di comunicazione. Sono un fotografo che fa della creatività il suo punto forte, quando trovo una realtà giovane, seria e che vuole investire ho trovato il cliente migliore in assoluto per me e per la mia fotografia.
Raccontaci come è stato entrare in contatto con le mille sfumature della realtà del Congo, con le persone, con le ingiustizie, le storture e le bellezze di una terra tanto meravigliosa, quanto complessa.
Il Congo è un posto complesso, non c’è altro termine per descriverlo. Nelle infinite maglie di questo nodo si possono cogliere sfumature fondamentali per comprendere chi siamo, da dove proveniamo e soprattutto dove stiamo andando (anche come modello occidentale). La duplice stratificazione sociale provoca un divario enorme tra ricchi e poveri, facendoci comprendere subito cosa è e cosa stato il colonialismo. Le miniere descrivono l’enorme ricchezza del paese, i cinesi che le gestiscono l’enorme incapacità di farle fruttare internamente. La comunità e l’aiuto reciproco esempi da reintrodurre nel nostro mondo contemporaneo, l’unicità delle cose semplici un modello da imitare. Per me il Congo è stato un ritorno ad un ricordo che avevo perso in qualche meandro del mio cervello da bambino.
Hai scattato centinaia di foto, ce n’è una che per te resterà il simbolo di questo tuo viaggio in Congo?
Passeggiavo per il centro di salute di Kanyaka, nell’area rurale di Mabaya, dove opera Amka. Era pomeriggio, subito ho notato un fumo nero che si stava innalzando da dietro la scuola, mi sono avvicinato e trovai un gruppo di ragazzini che sembravano letteralmente giocare in mezzo alle sterpaglie che andavano a fuoco. Mi sono preoccupato per loro perché nel gruppo c’erano anche 3 bambini, ma poi ho notato che stavano ridendo. Aspettavano l’ondata di vento che avrebbe bruciato sempre di più quel fazzoletto di terra, e non appena il fuoco divampava, seguivano il suo percorso come un fedele cagnolino. Solo dopo capii cosa stavano facendo: cercavano degli insetti da mangiare, che solitamente sono difficili da scovare nella savana. Ero talmente preso dagli scatti che non ho notato che tra loro c’era una bambina con indosso un tutù bianco. Un’inconsapevole ballerina che volteggiava nel fuoco. In quell’immagine c’era l’infinito spazio tra me e lei, tra i nostri sogni, tra la nostra quotidianità, tra le nostre emozioni.

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