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In questo Guatemala possente fatto di giungla, montagne e passione.

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Siamo in Guatemala da dieci giorni eppure sembra molto di più.
Dal primo momento è tutto cosi intenso che i giorni sembrano settimane. Il Guatemala ha una natura dirompente, esuberante e ad ogni passo ti manca il fiato per i colori, i profumi, i paesaggi. La senti questa natura che pulsa ed esplode.
I contadini che hanno lottato per anni nascosti nella selva, la proteggono e la difendono con ardore immenso: “restituiamo alla natura la vita che ci ha dato”. Loro chiaramente alludono alla protezione durante le rappresaglie, la guerriglia e le fughe ma immersa in tutto quel verde mi chiedo: non dovrebbe essere valido per tutti?

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Subito dopo i paesaggi vengono i volti. Appena scesi dal bus che ci porta a Nuevo Horizonte, dopo una lunghissima notte di viaggio con vari inconvenienti, incontriamo i primi volti e lì cominciano i racconti, gli scambi, il lavoro.
Per capire, per poter lavorare, devi ascoltare e all’inizio i racconti hanno il suono di un’epopea…forte, altisonante ma lontana. Forse un po’ mitica. E’ sempre così, quando incontri una realtà tanto cruda la tua mente ti protegge e il primo immediato sentimento è la distanza. E la realtà che hai davanti ti tradisce, perché Horizonte oggi è un’isola che sembra felice. Alberi da frutta, fiori, case dipinte e tanta gente in gamba che lavora, bambini coccolati, profumo di tortillas.
Pensare che ieri, le stesse persone erano costrette a scappare, a combattere a partorire in marcia, fa strano.

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Il viaggio prosegue e dopo una settimana lasciamo Horizionte. Alle nostre spalle tante storie, tanto lavoro, i nuovi progetti che cominciano e tutta l’energia di un macchina in funzione. Lungo la strada altre comunità, altri progetti, altre storie.
Il nuovo motore scoppietta di speranze nuove e finalmente arriviamo a Coban. Acqua calda, e profumo di caffè e ti senti una regina anche in un piccolo ostello con cortile interno e amache. Rigenerati da una notte di puro sonno senza la paura di veder comparire ragni enormi e senza il fastidioso verso delle scimmie urlatrici nelle orecchie, incontriamo Carlos Morales e tutto cambia.

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La storia diventa presente e qualcosa nella mente inizia a scricchiolare. Dopo una faticosissima colazione in cui ci aggiorniamo sulle attività delle nostre associazioni, ci spostiamo nel suo ufficio e la storia diventa vera. Carlos ha fondato un’organizzazione chiamata UVOC (Union Verapacence de Orgnizaciones Campesinas).

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Quest’ organizzazione lavora da oltre 20 anni per sostenere i contadini, con formazione, appoggio legale e soprattutto dandogli voce nella politica del Paese. Ovviamente al governo la UVOC non piace, perché reclama il diritto alla terra e alla vita dei contadini contro gli interessi economici delle grandi imprese, della coltivazione estensiva, del beneficio dei “ricchi”.

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“Tierra” è la parola che ho sentito pronunciare più volte da quando sono qui. E sempre nello stesso modo, con la passione con cui chiamereste un’amante o con la tensione di una preghiera.
Parlando Carlos mi dice : “i contadini si lamentano perché non hanno la terra. Se avessero la terra non si lamenterebbero, perché dove c’è terra non c’è fame”. E’ tanto semplice quanto poco banale. In questa frase ci sono anni di lotte e di sofferenze. C’è l’essenza di un popolo, il succo della sua storia, tutta l’evidenza di un presente ingiusto.

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Nei secoli, dalla conquista spagnola in poi, per i contadini è stato un continuo esproprio – recupero -esproprio. A colpi di fucile, macete, fuoco e “tierra arrasada”. Dopo 36 anni di guerra civile, con la firma degli accordi di pace, molti contadini recuperano la loro terra o cosi sembra. Ma peggio della guerra c’è il silenzio, quello che accade dopo, quando i riflettori sono spenti e nessuno guarda più.
Nell’ultima settimana, ci racconta Carlos, la polizia e l’esercito hanno circondato 12 comunità, sfrattato le persone, ucciso o ferito chi si ribellava, distrutto i raccolti, le case…tutto. Ci mostra diverse foto e ci racconta. Suona come i racconti della “tierra arrasada” nel tempo della guerriglia, quando senza badare a nulla si bruciavano interi villaggi trucidando tutti gli abitanti, poco importava se si trattasse di donne o di bambini. Solo che questo è oggi. E’ qui e non ho più scuse, devo sentirlo vicino.


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Dopo dieci giorni di “tierra” e “mais” la foto che più ci ferisce è quella che ritrae un trattore che devasta i campi di mais. Tanto per essere sicuri che al contadino non resti nulla.
Tra una riunione e l’altra Carlos cerca di fare chiarezza tra i miei pensieri confusi rispondendo alle mie domande che sembrano domande di bambina. “Perché il governo appoggia i fincheros?”. Elementare Watson: perché loro finanziano il governo e le sue campagne elettorali. E pensare che stiamo parlando di gente salita al potere con il voto dei contadini.
Sulla via del ritorno lo chiamano da un villaggio: “Carlos c’è l’esercito…” lui smette di parlare e continua a guidare, calmo ma si vede che la sua mente è altrove.

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Ce ne torniamo in ostello con addosso una strana sensazione. Abbiamo fatto otto ore di macchina per arrivare a Coban. Lungo questa meravigliosa strada di montagna abbiamo visto tanti campi, case, persone, in una dimensione che sembrava avvolta di speranza e di futuro.
Una di quelle ora potrebbe essere sul punto di sparire per fare posto a grandi estensioni di coltivazioni di palma africana o canna da zucchero, non importa, basta che diano biodiesel.

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La sensazione di impotenza mi schiaccia anche qui, in questo Guatemala possente fatto di giungla, montagne e passione. Pochi grandi interessi, l’egoismo dell’uomo potente, la necessità e l’ignoranza del contadino e del povero, producono gli stessi meccanismi ovunque. Cambia la forma ma non il contenuto.
All’inizio di questo viaggio credevo di essere in un mondo tanto diverso dal mio vecchio Congo e tutto mi sembrava nuovo e con tante diverse potenzialità. Una strada in discesa, col monopattino.
Solo che in fondo c’è un muro molto duro su cui sbattere il naso.

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Carlos è  rimasto calmo tutto il tempo, nei suoi racconti c’è ardore ma anche una visione lucida, quella che hanno i condottieri e pochi altri. A volte sembra un gigante e in lui rivedo gli altri lasciati lungo la strada, Raul, Beatriz, Sandra, Rony…uomini e donne grandi, con lo sguardo oltre il muro e gambe salde per arrivare dall’altra parte e il cerchio si chiude. Ripenso ai primi racconti i primi confronti, adesso è tutto vero, terribilmente vero.

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Messi tutti in fila fanno impressione, un esercito di volontà e ideale misti al giusto cinismo.
“Como el agua con la roca” cerco di spiegarmi con Carlos in uno spagnolo incerto. Lui sorride perché sì, sente che è così. Piano piano la roccia si romperà.
Da dentro il mio sacco a pelo, nel silenzio del mio ostello che dorme, sento il bisogno di dare a voce alle famiglie che stasera non avranno casa nè terra nè futuro. E improvvisamente il Congo è qui e qui sono tutti i poveri della terra che questa sera, per usare le parole di altri, non mi faranno dormire.

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E allora vi parlo di loro, di quelli che ho incontrato, di quel poco che ho capito.
Perché non c’è niente di peggio del silenzio. Inizio da qui, iniziamo da qui.

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