Torna a San Lorenzo il Festival delle Culture. Dal 9 al 18 settembre il quartiere…
Cosa c’è da guardare?
Mattino, caffè, un biscotto volante e poi via. Quel gesto quasi compulsivo dell’aprire cartelle e finestre, il click del mouse che è lì a scandire il tempo e l’ansia, apro e chiudo files, come una macchina posseduta. Guardo, chiudo poi riapro ancora una volta, perché forse non ho visto bene e in questo modo magicamente, si trova tutto quando stai cercando qualcosa nel pc! E’ cosi, mentre apri, chiudi e salvi non si sa bene perché finisci il tuo lavoro.
Se si tratti di una facile malattia del nostro tempo o solo un nuovo modus operandi per fare ricerca nel 2016 io non lo so, sta di fatto che ieri mattina nel gesto ripetuto, ho trovato questa foto. A quel punto l’automatismo dei pensieri ha inchiodato: una specie di bug del sistema mattutino. Un ricordo improvviso che ancora dopo anni fa rimbalzare alla mente quell’istante in cui ho scattato la foto e quella domanda nella testa: ma cosa diavolo sta guardando quel bambino da due ore?
Era diventato il mio rompicapo e non solo il mio, avevo coinvolto nel mio stitico esercizio di scoperta altri strani compagni di viaggio.
Da dove venivo io i bambini non passavano tutto quel tempo attaccati ad un parafango di una jeep, da dove venivo i bambini non giocavano a calcio in 25 pur di giocare o tanto meno si mettevano in testa delle taniche giganti di acqua, un fratello a “tracolla” e spintonavano il compagno per fargli uno scherzo! Da dove venivo io, i bambini erano sempre stanchi, anche se le loro ginocchia erano geneticamente pronte a giocare e farsi male. Quindi diamo per assunto che da dove venivo io, era un mondo troppo lontano per trovare la risposta alla fatidica domanda: ma che diavolo sta guardando quel bambino?
Torniamo al bambino della foto. Continuava a restare attaccato a quel parafango cromato, senza distogliere lo sguardo ma la cosa assurda è che non era il solo. Altri bambini arrivavano dietro, accanto e intorno a lui. Iniziava una specie di walzer: volti seri inizialmente, stupiti, ma di uno stupore che si mischia allo spavento e all’incapacità di reagire. Subito dopo la musica accelera: spintoni, facce buffe, smorfie, linguacce e risa. Sì, risa a crepapelle, quasi troppo per quei piccoli corpicini.
Io non capivo, noi non capivamo. Cambiavamo villaggio, stessa jeep e il walzer ricominciava. Stavamo ad osservare ogni volta quella danza, si perché avevamo tempo. In Africa c’è sempre tempo. Molti di noi erano solo felici di vedere quei volti esilaranti scorrazzare intorno alla jeep e sorridere, perché quei sorrisi hanno davvero qualcosa di diverso, ma c’era qualcosa di più…
L’unico modo per conoscere qualcosa di diverso da noi in un contesto così lontano, è il fantomatico equilibrio tra l’osservazione senza presunzione e la semplice curiosità senza giudizio indagatore. Quanto di più difficile, ma naturale allo stesso tempo se decostruiamo le sovrastrutture sociali. No, non ho bevuto rum di prima mattina.
E’ vero, infatti, che le scoperte avvengono sempre per caso e che a volte tutta la fatica per scrollare di dosso la “nostra” conoscenza scivola da sola. Sia io che quel bambino in quel fatidico giorno facemmo una grande scoperta. Ero intenta nella osservazione del solito walzer, scattando con una compatta quegli attimi di euforia che ai miei occhi erano follia e pensavo:” forse guardano la bandiera del Congo? Chi ha ancora sulla targa la bandiera della propria nazione? o forse sarà la cromatura?
Una collega congolese mi tira per il braccio: “Dai, si è fatto tardi, dobbiamo rientrare in città! Ah, hai visto che simpatici: è buffo quando si guardano per la prima volta allo specchio!” Non esiste un modo giusto per sapere le cose, ma per me quello è stato il migliore, impeccabile! Seduta nel viaggio di ritorno a bordo della “mitica” jeep, in un silenzio che non mi appartiene, inizia la danza nel mio cervello, tanti flash convulsi come il film più veloce della storia.Come era possibile non essersi mai guardati allo specchio fino ai 5-7-10 anni?
Il gioco era chiaro, avevo partecipato alla scoperta più bella o in ogni caso più forte della vita di una persona, scoprire se stessi e la propria espressività. E tutto questo lo avevo fatto senza sapere cosa significhi realmente ma ne ero rimasta affascinata. No, non si può capire sempre e fino in fondo una realtà, ma la si può vivere e curiosare perchè c’è quasi sempre una spiegazione, logica o no, condivisibile o meno che dà un senso reale a comportamenti, dinamiche e azioni di chi non conosciamo. Sarebbe stato davvero un peccato scattare quella foto senza chiedersi il perchè, sarebbe stata in ogni caso una bella foto ma non un passo in più!
Voglio solo dire che, quello sguardo e quella curiosità innata di chi guarda per la prima volta se stesso, sperimentando i primordiali movimenti facciali o un sorriso riflesso, io non l’ho mai più visti. Ma li ho potuti vedere e ho potuto cogliere il senso reale solo perché mi è stata data una spiegazione, perché ho saputo qualcosa in più che con il mio retaggio culturale e i miei occhi non avrei mai visto. Se avessi lasciato correre sarei tornata a casa con un’immagine bella di bambini sorridenti che a volte fanno cose bizzarre e pure un pò mattarelle: come guardare per ore un parafango. Infondo sarebbe stato un pò come andare al museo.
Non sono stati gli sguardi che mi sono portata a casa, ma un vagone ricolmo di interrogativi: come guardiamo una realtà che non conosciamo? Quello che ci sembra diverso, lo è solo perché non lo capiamo? Cosa significa non conoscere la propria immagine? etc.. ma soprattuto tanti link nella testa come dei pop-up impazziti: ecco perché vogliono rivedere sempre le foto scattate, ecco perché si fanno pettinare ed aggiustare sempre dagli altri, ecco perché i vecchi non sanno descrivere bene come erano da giovani e forse ecco perché non fanno cose come l’occhiolino…
Ed ora, tranquilli non parte la ramanzina di quando ogni mattina ti guardi allo specchio o il pietismo sul fatto che quei poveri bambini non hanno neanche uno specchio; perché le ho sempre odiate le ramanzine e perché non so bene ancora se serva davvero uno specchio. Voglio però, ricordarmi, come se fosse una ramanzina di quelle che ti fa la nonna (quindi sempre uguali, ogni volta che la vedi) che osservare e sapere, sono concetti assai diversi. Questa frase vale come jolly nella vita, perché assolutismi e suggerimenti del vivere fanno sempre bene, lanciandosi in un pò di retorica.
Però mai come questa mattina, nel tran tran quotidiano dei click, tra una news e un social, e forse, con la nostalgica lezione data dal ritrovamento di questa foto congolese mi dico, che in questo mondo che ci sta intorno, che cambia veloce quanto un click, devo imparare io altrettanto velocemente ad osservarlo ed a “saperlo” leggere. Come? Mi verrebbe da dire con un tuffo a bomba nella relatività dei contesti ma credo proprio che l’interrogativo è ambizioso per una risposta simpatica e forse me lo porterò a lungo ma quando il “tuo” mondo è pieno fortunatamente di cose “diverse” da te:
osservare per sapere senza pregiudizio o conclusione facile è la parte migliore!
Elisa Mannarino
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