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Magica terra d'Africa


 
Ero diretta sull’axe Myunga nei villaggi David, Mose e Yandisha per assistere alle lezioni di alfabetizzazione tenute dai relais e per effettuare una verifica dell’utilizzo delle zanzariere donate durante la campagna contro la malaria. Mi aspettava una giornata di camminate sotto il sole, di strette di mani, di domande e di racconti. Ero pronta a tornare a casa con tante nuove informazioni nella testa e mille nuovi progetti. Non mi aspettavo di vivere la giornata che invece ho vissuto.
Dopo un lungo viaggio in jeep, siamo arrivati ma i villaggi erano in lutto. Quando muore qualcuno qui è tradizione osservare diversi giorni di lutto. In questi giorni tutto si ferma, il villaggio, piange e si stringe intorno alla famiglia che ha perso una persona cara, si mangia tutti insieme, si dorme tutti vicino alla casa del defunto. Questo spesso si traduce in un salasso economico incredibile, perché è la famiglia che deve occuparsi di accogliere e dare da mangiare a tutti.
Al nostro arrivo, erano tutti seduti fuori dalle case, in silenzio. Non c’era nessuna possibilità di lavorare, il villaggio aveva fermato il tempo e non restava che tornare indietro. Prima di risalire in macchina siamo andati dalla famiglia e ci siamo seduti qualche istante con loro per presentare le nostre condoglianze e prendere parte a quel rito comunitario. Abbiamo ricevuto una sedia per sederci e siamo rimasti lì in silenzio come gli altri. Era strano quel silenzio, una cosa difficile da capire, già sperimentata in clinica da Francine, tutti seduti vicini senza parlare. Ma poi ho capito che l’importante è stare, esserci, è questo il senso. E l’ho apprezzato molto, perché in certi momenti le parole sono inadatte e vuote.
A un certo punto uno dei presenti  ha interrotto  il silenzio per raccontarci come era arrivata la morte del loro amico.
Non potevo capire bene perché parlavano in swahili, l’unica cosa che seguivo era la mimica facciale e a un certo punto era chiaro, dal mimo, che il tipo avesse avuto, un infarto o un ictus, insomma qualcosa di improvviso in seguito al quale era crollato a terra morto. Finito il racconto John (animatore AMKA) ha detto due parole di circostanza, abbiamo fatto le nostre condoglianze, dato appuntamento alla popolazione per la settimana successiva e ce ne siamo andati.
Siamo risaliti nella jeep nel caldo dell’una. Con noi sono salite due o tre persone che cercavano un passaggio, chi per il centro di salute, chi per la città.
Come abbiamo lasciato il villaggio John ha iniziato a raccontarmi quanto aveva sentito dire lì sotto il chioschetto di paglia.
Il defunto era il fratello dello chef Kaponda, capo di tutta la zona, inviato sul posto per risolvere una questione legata all’appropriazione indebita di un terreno.
Lo  chef di Yandisha, villaggio sotto l’amministrazione di Kaponda, aveva venduto un terreno senza chiedere l’autorizzazione. Kaponda, aveva quindi mandato il fratello a chiarire l’accaduto. Il villaggio si era riunito e sotto gli occhi di tutti era iniziata una lunga discussione. 
Nel momento più teso della discussione lo chef  Yandisha si era levato in piedi e aveva pronunciato qualche parola magica lanciando un maleficio. Il suo rivale era così caduto a terra stecchito.
A quel punto del racconto mi è tornato in mente il mimo perfetto del nostro amico che ci aveva raccontato tutta la storia e quella immagine, nella mia mente, ha acquisito tutta un’altra drammaticità. Ho dovuto chiedere a John di raccontarmi questa storia più volte, perché avevo il timore di aver capito male, tanto mi sembrava impossibile quel racconto. Mi sono sforzata di rimanere seria, per non offendere nessuno, ma mi suonava tutto come un barzelletta. John si faceva sempre più serio nel parlare, e allora gli ho chiesto: – ma tu ci credi?- 
Sulla sua risposta sto ancora riflettendo: – Come africano sì, come cristiano no. –
Era così serio nel suo racconto che a un certo punto, mentre sotto un sole caldissimo percorrevamo la nostra strada piena di buche ho avuto l’impressione di crederci anch’io e per un momento ho avuto paura di questa oscura magia.
Ripresami da questo piccolo “cedimento”, ho ripreso a fare domande e devo avere insistito talmente tanto nel tentativo di razionalizzare l’evento, che alla fine John ha ritrattato la sua versione, arresosi probabilmente al fatto che non potevo capire.
 Mi ha detto : -Sicuramente è stato infarto ma quelle persone non sanno spiegarselo e lo spiegano così -. Ma si vedeva che l’avevo preso per stanchezza.
Nonostante questa piccola vittoria del pensiero razionale, la mia mente restava confusa. Mi sono tornate alla mente tante cose, lette o sentite raccontare. “Il religioso si fonde con il magico”. Tante volte l’avevo sentito dire ma forse si tratta di un luogo comune, una semplificazione di noi bianchi che facciamo davvero fatica a capire queste mescolanze .
Proseguendo nel racconto, John mi ha detto poi che “l’assassino” si trovava in prigione a Kipushi. Questo era troppo per me, poter pensare che si possa essere indagati per omicidio con maleficio. E così ho ricominciato con una valanga di domande. John mi guardava attonito: perché ero così stupita da tutto questo?
Alla fine sono riuscita ad ottenere la confortante notizia che l’ordinamento non prevede questo genere di casi e che ci vogliono le prove per dimostrare l’uccisione di qualcuno.  Probabilmente il poveretto è lì per il fatto di aver venduto questa terra che non era autorizzato a vendere, o forse solo perché Kaponda è potente ed è molto arrabbiato.
A questo punto la mia curiosità ha svoltato per altri sentieri, visto che quello della magia era scivoloso e di difficile comprensione. Mi sono fatta spiegare ancora una volta come funziona la proprietà della terra, come viene assegnata e così via.
John  mi ha iniziato a spiegare che l’organizzazione statale si è appoggiata su quella tradizionale, assorbendo il sistema della chefferie articolata su più livelli. Esiste quindi lo “chef du territoire” (kaponda nel nostro caso) che “governa” su i vari chef di villaggio che appartengono alla sua zona. Sopra kaponda, c’è lo stato. la terra è dello Stato ed è data in “gestione” allo chef du territoire e tramite lui ai singoli chef di villaggio. Tutti hanno diritto ad un pezzo di terra da coltivare ed è il capo villaggio che gliela assegna. Non la comprano, la vivono.
– Allora non si può comprare la terra?-  ho chiesto io.
– Sì si può, ma ci vuole il permesso di Kaponda – (anche se sei uno stregone n.d.r).
Poi ha aggiunto – Ora sta cambiando, si inizia ad andare verso un sistema in cui tutti devono acquistare la loro terra – e nella sua voce c’era il senso di una perdita.
Erano ormai due ore che eravamo nella jeep e io continuavo a fare domande e a cercare di trovare una collocazione per tutte queste nere risposte nella mia mente bianca. Nonostante la sensazione di stordimento, da domanda nasceva domanda: come si diventa capo villaggio?
La faccenda qui si era complicata, lo vedevo, perché John aveva corrugato la fronte: – Dipende dalle tribù. Da noi…- a quel punto si è inserito papa Jean (autista di AMKA) che fino a quel momento aveva guidato in silenzio  – No, no, anche da noi e anche qui… –
il loro dire “da noi” indicava i luoghi originari delle loro tribu, John appartiene ai luba, papa jean ai runda mentre qui c’è un po’ di tutto e le usanze si mischiano.
Il racconto proseguiva con aggiunte di papa Jean e brevi confronti tra di loro: il capo villaggio è scelto  sempre – o quasi – nella famiglia del defunto. È  la comunità, di solito rappresentata dal consiglio dei saggi, che lo elegge.  Così, quando il capo villaggio muore, lo si tiene nascosto per qualche giorno, il tempo necessario ai saggi per trovare chi sarà la persona con le qualità necessarie per diventare il capo di quella comunità. Poi senza dare la notizia della morte del capo, si convoca una riunione di villaggio e si annuncia l’accaduto. In realtà a questo punto spesso il capo è già stato sepolto secondo tutti i riti del luogo.
Non resta che “festeggiare” e presentare alla comunità il suo successore. Il neoeletto dopo i festeggiamenti viene lasciato tre giorni senza bere nè mangiare, chiuso in un posto segreto. Si dice che in questa solitudine, gli antenati gli parlino e lo preparino al compito che lo aspetta.
Poi viene lasciato altri giorni nella foresta per affrontare le sue paure e diventare più forte. Al suo ritorno è pronto per guidare la comunità.
Tutto questo ci può sembrare brutale, “primitivo” ma io ci trovavo una certa saggezza.
Da un punto di vista “politico” tenere  nascosta la morte del capo fino a che non si trova il suo successore, è tutto sommato un modo per conservare la calma all’interno della comunità e custodire il potere. L’iniziazione del nuovo capo, il dialogo con gli antenati, le prove da superare, sono uno strumento di legittimazione e anche questo probabilmente volto a mantenere l’ordine…ma tutto queste riflessioni impoveriscono le sensazioni che provavo nel seguire i racconti di John, nei quali avvertivo una ricchezza, una saggezza antica, la meraviglia di radici profonde e condivise.
Mi guardavo intorno, eravamo ormai sulla strada di Kasumbalesa, sotto le ruote della jeep scorreva rapido l’asfalto. Passavo in rassegna le facce dei capi villaggio che conosco e me li immaginavo correre nella foresta e superare le loro paure. Gente che conosco..no, non è possibile.
La mia povera testa, cercava di conciliare quelle che potevano essere realtà da romanzo con la realtà che vedevo intorno e nella quale in quel momento mi trovavo anch’io. Ero impegnata in questi giri mentali e avevo messo fine all’ inarrestabile flusso di domande.
Approfittando del mio silenzio John si è girato verso di me e mi ha detto: – E da voi come funziona? –
Io sono rimasta spiazzata, – beh, da noi è tutto gestito dall’amministrazione pubblica – . Un po deluso John mi risponde: –Ah, quindi la tradizione non c’è
-No- ho detto io a bassa voce, e mi sono sentita povera.
Per il resto del tragitto ho scavato nella mia memoria cercando affannosamente qualcosa, qualche conoscenza perduta, che mi potesse riabilitare. Siamo entrati in città  e quando la sbarra del passaggio si è chiusa dietro di noi ho avuto la sensazione che il mio tempo fosse scaduto. Ero davvero povera.
 
Valeria Pomarici

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