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Terra, tortillas e libertà
Comunità Ixcaya, Municipio Salamà, Baja Verapaz. Il Guatemala è davvero una perla. Un paese piccolo, grande come un terzo dell’Italia, ma che si affaccia su due oceani e vive all’ombra di una miriade di vulcani. La biodiversità che si incontra nel regno vegetale e animale, grazie a dio, non risparmia neppure gli esseri umani. Lascio la pianura del Peten, il caldo tropicale e i ragni grandi come bambini e salgo sulle montagne dell’Alta e Bassa Verapaz.
Paesaggi mozzafiato, pioggia e nebbia costanti e una lussureggiante vegetazione che vanta miliardi di tonalità di verde differente. Mi attende Carlos Morales, coordinatore della UVOC (Union Verapacense de Organizaciones Campesinas) per parlarmi del loro lavoro e portarmi in uno dei cuori indigeni del Paese. L’obiettivo della UVOC è accompagnare il processo organizzativo delle comunità contadine. Senza organizzazione, mi spiega Carlos, i contadini non potranno ottenere nulla. Continueranno ad essere considerati animali così come accadde all’arrivo degli spagnoli. Devono organizzarsi, unirsi, essere compatti, perché non possono contare che su loro stessi per ottenere terra, tortillas e libertà.
La UVOC ha vari programmi. Ambiziosi ma necessari. Lo sviluppo dei popoli indigeni (sono il 60% della popolazione guatemalteca e i più poveri) non può che passare attraverso la riforma agraria. I libri di storia raccontano che il Paese si affrancò dalla colonizzazione nel 1821, tuttavia, ad oggi, il 75% della terra della Alta e Bassa Verapaz è in mano a tre famiglie tedesche. – Noi pensiamo che la lotta contadina non sia un delitto. Ci chiamano sovversivi, ma non si tratta della cosa più chiara del mondo? La terra a chi deve appartenere, a stranieri con denaro o a chi qui è nato? C’è giustizia se il 78% della terra in Guatemala appartiene all’8% della popolazione? Noi pensiamo di no, e per questo lottiamo -, conclude Morales. Partiamo di mattina presto e raggiungiamo una comunità sperduta sulle montagne: Ixcaya.
In un salone ci attende un centinaio di persone. Le donne, con i loro figli, sedute da un lato, gli uomini da un altro. Non tutti parlano spagnolo, le lingue maya hanno resistito alla colonizzazione del ‘500, portata avanti, come sempre, per esportare civilizzazione e morte. Sono affascinato dalla bellezza e dalla dignità della loro accoglienza. Sono pur sempre un “dollaro che cammina” eppure non mi chiedono nulla. Mi chiedono soltanto di dare una mano alla UVOC, soprattutto per quanto riguarda la fornitura di concime biologico. Chiedono un appoggio per lavorare meglio.
Pedro, un rappresentante di Ixcaya mi racconta la loro storia per mostrarmi un percorso di lotta. Dieci anni fa Ixcaya no esisteva. Le famiglie vivevano in una fattoria di un ricco proprietario guatemalteco. – Lavoravamo per il padrone – racconta Pedro, – Trasportavamo legna, piantavamo pasto per il bestiame senza essere pagati neppure un centesimo. Abbiamo sofferto moltissimo. Il padrone ci obbligava a lavorare per poter vivere sulla sua terra.-
Nel 1998 le famiglie di contadini hanno iniziato ad organizzarsi. Hanno rivendicato diritti e hanno conosciuto la UVOC. L’organizzazione li ha aiutati a cercare una soluzione, l’unica possibile, prendere possesso della terra. Hanno chiesto al padrone il prezzo della fattoria per poi chiedere un prestito al Fondo de Tierra, una struttura bancaria specializzata nella compravendita di terreni.
Il padrone, da un lato pretese una cifra esagerata e dall’altro insistette affinché i contadini trovassero il denaro e pagassero quel prezzo indicato. Un proprietario terriero guatemalteco non insiste soltanto a parole. Vietò ai contadini di piantare mais e fagioli nei piccoli spazi di terra loro concessi (unica possibilità di sussistenza), vietò ai giovani che si sposavano di costruirsi una piccola casa di fango e legna per poter vivere. Aumentò i carichi di lavoro volontario. Il Fondo de Tierra rifiutò un prestito così oneroso giudicando assurdo il prezzo della fattoria. Ma con l’appoggio della UVOC fu individuata un’altra fattoria e, dopo 3 anni di lotta, il Fondo de Tierra concesse il prestito e i contadini, dal 2003, sono diventati i leggittimi proprietari di una fattoria. Gli occhi di Pedro si trasformano da sofferenti ad orgogliosi. -Abbiamo fame, ci manca salute e educazione. Ci mancano gli strumenti necessari per rendere la terra del tutto produttiva. Però adesso non abbiamo più nessun padrone.-
Con l’organizzazione e l’unità sono riusciti a raggiungere un obiettivo decisivo. Questa giornata emozionante e illuminante si conclude con la visita di una famiglia in una comunità limitrofa. Tre ore di jeep e due ore a piedi tra ruscelli, polli, tacchini e maiali. Raggiungiamo in alta montagna, una famiglia indigena. Carlos mi presenta e io mi sento a casa. Ci preparano uova e fagioli. Mangio con gusto e bevo una limonata. Spero che l’abbiano preparata con acqua pura come i cuori di questa gente.
La famiglia è povera, ma insiste nel volerci regalare delle uova fresche e mezzo chilo di fagioli neri. Tutto quello che hanno in casa. Io ho imparato ormai ad accettare senza troppi problemi questi doni. Per loro ci sono cose molto più importanti della fame. Discendiamo la montagna. Io dico a Carlos che in Congo, in Guatemala o nelle periferie di Palermo, è sempre la stessa storia. La gente povera è anche la più generosa.
Lui annuisce e dice: – Non solo è la più generosa, ma soprattutto regala quanto di meglio ha. In cambio i ricchi regalano ciò che avanza o ciò che non serve più-.
Non generalizzo, ma le mie esperienze mi indicano che c’è verità nelle parole di Carlos.
Alessandro Di Battista